Intervista con Luca Campestri

Giacomo Pigliapoco

In Trapped parti dal concetto derridiano di hauntology composto dalla crasi del verbo “to haunt” (infestare, ossessionare) e del sostantivo “ontology”. Con l’hauntology, Derrida si oppone al concetto tradizionale di ontologia, che definisce l’essere come una presenza sempre identica a sé stessa, introducendo la figura dello spettro. Gli spettri notturni che abitano i tuoi lavori quindi sono segni di un mondo virtuale che interroga il mondo reale e la sua natura?

Luca Campestri

Il concetto derridiano di hauntology è uno strumento di analisi utile per quanto riguarda la mia pratica. È centrale l’idea di spettro in quanto presenza compromessa, un essere che agisce nella dimensione virtuale di ciò che non è più ma che continua a manifestarsi e ciò che non è ancora ma i cui effetti precedono la messa in atto: tali le modalità dell’essere hauntologico, diviso tra coazione a ripetere e disgregazione mnemonica. Lo spettro vive una non-origine rinviata, un’ontologia che cova al suo interno la sua teleologia e la sua escatologia.

GP

La serie Trapped si concentra su visioni notturne, elementi naturali e animali che con il movimento attivano delle fototrappole a infrarossi. In base a cosa scegli i luoghi dove piazzare gli obiettivi e come organizzi il lavoro di nella pratica?

LC

Le immagini sono il risultato di una selezione attuata su un archivio di qualche centinaio di foto realizzate tra il 2017 e il 2018 in alcuni boschi alla base degli Appennini Tosco-Romagnoli: nella mia pratica esploro luoghi affettivi, memorie osservate in notturno, in uno stato ipnagogico. Inoltre la riflessione sul mezzo è inevitabile. A essere colti sono frammenti narrativi lontani da qualsiasi sguardo che solo un mezzo automatizzato, attraverso un flash invisibile, può carpire. Il passo successivo è la stampa su tessuto catarifrangente, che permette a ogni parte chiara dell’immagine di ottenere la qualità cangiante e riflettente del tessuto. In questo modo l’immagine può essere riattivata, il fruitore a sua volta può mettere in scena la stessa dinamica di acquisizione dell’immagine, illuminandone la superficie.

GP

Ciò che presenti è qualcosa di abbandonato dall’uomo che, lontano dagli occhi, torna liberamente a vivere. Da dove nasce l’ossessione per questa estetica del paesaggio notturno?

LC

La mia opera pone spesso in scena notturni esplorati torcia alla mano, paesaggi ambivalenti, intimi e perturbanti, visioni desaturate – il motivo per cui il bianco e nero è predominante è percettivo, la penombra è in scala di grigi. I lavori constano di immersioni “al di sotto” o “all’interno”, abissi interiori che sento la necessità di vagliare, ricordi, eventi, rapporti su cui sento la necessità di gettare nuova luce. La dimensione spesso evocata è quella della soglia, di uno stato sensibile come il dormiveglia. Nello specifico nella serie Trapped, o in cicli passati come Spettri e Col rischio di perdersi, emerge anche il topos letterario del bosco, luogo fiabesco dello smarrimento, sfondo di qualsiasi racconto infantile.

GP

Il buio è parte fondamentale delle tue opere ma soprattutto la luce ha un ruolo predominante. Qual è la sua portata simbolica nelle tue opere e come interagisce con gli elementi rappresentati?

LC

Si tratta di gettare luce su memorie, private o collettive, scavare e ricostruire, osservando come il passato continui a plasmare il presente in una forma di interpretazione performativa, interpretazione che plasma la materia interpretata. La luce nelle mie opere possiede un valore esplorativo, proporzionale alla sua capacità di squarciare il buio dilagante, che sia all’interno di un’installazione ambientale o punto focale della fotografia. La luce è il quintessenziale mezzo di ricerca all’interno di opere che materializzano visioni annebbiate, notturni ambigui, le impronte lasciate da una memoria che va disgregandosi.