Intervista con Tomaso De Luca

Giacomo Pigliapoco

Nel febbraio 2019, nel sud-ovest di Philadelphia, un agente immobiliare è sfuggito a una ghigliottina amatoriale, apparentemente progettata per ucciderlo. In che occasione hai incontrato questo fatto di cronaca da cui nasce Desperate Times e com’è diventato uno spunto per un’opera?

Tomaso De Luca

In occasione di Something Out Of It, primo capitolo di LIAF 2022 – la biennale delle isole Lofoten, in Norvegia – tenutosi a Venezia nell’aprile 2022, lo spazio con cui avevo a che fare era la residenza privata di due collezionisti. Da tempo stavo riflettendo sulla violenza della domesticità e dell’architettura, sull’idea di sicurezza e sulla casa come uno degli apparati della lotta di classe. Ho incontrato quasi casualmente la notizia di Philadelphia e mi è sembrato un punto fondamentale da cui partire: certamente la trappola è visibilmente e concretamente un oggetto violento, ma è altrettanto vero che la violenza istituzionalizzata dell’esproprio, della gentrificazione, del capitale finanziario e del mercato immobiliare sono una trappola ben più reticolare, complessa e brutale.

GP

La precarietà, gli incidenti domestici, le architetture chiuse o incomplete e l’istinto di sopravvivenza… Sono forse questi i desperate times a cui ti riferisci nel titolo dell’opera?

TDL

Non proprio. I desperate times in cui viviamo sono più complicati di così. Annie Le Brun, nel suo libro L’eccesso di realtà, ci ricorda come alla deforestazione e desertificazione reale del pianeta corrisponda anche una desertificazione del pensiero. L’opera estrattiva del Capitalismo va ben oltre il mondo fisico, riguarda anche il tempo, il subconscio, l’immaginazione e il desiderio. Resistere a questa progressiva deforestazione personale e collettiva richiede l’invenzione di “mac- chine” alternative, ovvero di composizioni di corpi, oggetti e pensieri in grado di sabotare il processo estrattivo. Il titolo del lavoro allude al detto “desperate times call for desperate measures” ed è, in un certo senso, stranamente ottimista: è un invito a immaginare delle contromisure, delle tecnologie alternative di creazione di sé e del mondo circostante.

GP

In un altro tuo lavoro di tipo scultoreo, incentrato allo stesso modo su queste trappole artigianali, affermi: «tutte le sculture e le architetture rientrano nella categoria della trappola», che cosa volevi intendere con questa affermazione?

TDL

Lavorare sulle trappole mi ha permesso di trovare una via d’accesso “obliqua” per interfacciarmi con delle pratiche storicamente consolidate come l’architettura e la scultura, che hanno parametri ben definiti. Cambiando anche di poco questi parametri (eliminando una porta da una stanza la si trasforma in una prigione), sembra chiaro come la trappola sia ontologicamente alla base di molta produzione culturale. Secondo la lettura dell’antropologo Alfred Gell, le trappole – così come gli oggetti d’arte – sono simili a macchine, ad auto-maton che incarnano le intenzioni del cacciatore/ artista e, allo stesso tempo, imitano l’ambiente e le abitudini della vittima/ spettatore/abitante, trasformandoli in un loro doppelgänger paradossale e letale. Sebbene dissenta da alcune posizioni moderniste di Gell, trovo che questa idea di mondo-trappola apra degli scenari interessanti su cui andare a intervenire.

GP

Pressoché tutti i tuoi lavori sono svuotati da ogni presenza umana, ma nonostante tutto le scene continuano a muoversi implodendo, lievitando, attivandosi o fluttuando, chi sono le presenze invisibili e attivatrici dei tuoi lavori?

TDL

Sono fantasmi.